giovedì 14 settembre 2017

lunedì 21 agosto 2017

LA COSTRUZIONE DELLA GUERRA CIVILE MONDIALE

Dopo ogni attentato viene costruita una narrazione di paura. Perché? A cosa serve? E cosa possiamo fare noi?
Barcellona, 14 morti. La manifestazione allontana i gruppi fascisti. La Sindaca parla di pace e di accoglienza. Ma questo sembra non bastare. Quando si lancia il sasso della paura nel lago dei media mainstream, le onde concentriche che si formano continuano a ingrandirsi senza smettere. C’è chi, in questi giorni, sui social cerca di far riflettere, comparando i numeri dei morti per terrorismo in Europa con il resto del mondo. Basta fare questi conti per rendersi conto come in Europa facciano molte più vittime gli incidenti stradali, che il terrorismo. Ma questo non basta a fermare le onde concentriche della paura.
Questa è una guerra civile mondiale, avevo scritto dopo il Bataclan. Una guerra civile organizzata a livello mondiale, ma che si diffonde a livello nazionale, e si attua in maniera differenziata nelle diverse regioni del mondo. Una guerra civile che in prima istanza toglie qualsiasi umanità al nemico, o al sedicente tale. Una guerra civile che distrugge i diversi – donne, migranti, infedeli, minoranze.
Una guerra civile mondiale, dove gli ‘opposti estremismi’ sono i patrioti occidentali da un lato, e i fondamentalisti islamici dall’altro. Entrambi utilizzati, se non costruiti, dalle élite che sostengono l’ordine mondiale neoliberale. O forse dovremmo dire il dis/ordine mondiale neoliberale.
Dis/ordine mondiale perché dopo il 2008, il mondo post ’89 della libertà, della democrazia, e dello sviluppo capitalista senza confini e senza limiti per la ricchezza, scricchiola. Così come scricchiola il suo principale sostenitore: gli Stati Uniti. Come mantenere quindi la supremazia del progetto egemonico neoliberale sul mondo? Costruendo paura. Una paura che funzioni da eco egemonico e ci ricordi che siamo parte dell’Occidente e prima di tutto dobbiamo difendere la nostra casa, il nostro modo di vita, i nostri valori, il nostro sentito comune. Purtroppo, è proprio questa costruzione di paura che sta distruggendo il nostro modo di vita. È la nostra necessità di sicurezza che uccide la nostra libertà.

In Europa dopo ogni attentato viene costruita mediaticamente, culturalmente ed emozionalmente questa guerra civile mondiale. Non importa che i morti degli incidenti stradali siano in numero maggiore che negli attentati. Gli attentati costruiscono l’attuale collante del nostro vivere comune: la nostra comune paura collettiva, tramite cui si cerca di stabilizzare il dis/ordine mondiale. Questo dis/ordine si riproduce nella costruzione di piccole paure quotidiane, che esorcizziamo nel nostro agire pubblico: gli insulti ai negri sugli autobus, il complotto delle ONG su facebook, le offese urlate a Boldrini, il bullismo su snapchat, i video contro i gay su youtube. Se non ridi sei noioso e soprattutto non stai riproducendo meccanicamente la routine della paura. La produzione e riproduzione di un senso comune di paura che ci tiene insieme. Se non partecipi, stai distruggendo il nostro modo di stare insieme come comunità occidentale, il nostro modo comune di avere paura insieme.
Per rompere questa costruzione di paura non possiamo solo riportare i numeri dei fatti reali – che è comunque il primo passo - ma dobbiamo anche costruire un altro senso comune dello stare insieme.
Ogni giorno lasciamo annegare le persone nel Mediterraneo, o le rimpatriamo in paesi dove c’è la guerra, o le rinchiudiamo nei campi. Ogni giorno distruggiamo le speranze di centinaia di persone in fuga. Ed è qui che si attiva una sorta di legge della meccanica della sofferenza, questa non si distrugge, si trasforma, prima in odio, poi in terrore e infine in morte. E noi rispondiamo con la paura. 

È qui che dobbiamo ricominciare a costruire un altro senso comune dello stare insieme, contro la paura. Diceva un rivoluzionario qualche decennio fa: ‘siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia commessa contro chiunque in qualunque parte del mondo’.
Dobbiamo sentire le ingiustizie, non la paura. 

Vane Bix

sabato 12 agosto 2017

FIRMATE APPELLO "IO PREFERIREI DI NO"

È in corso un nuovo sterminio di massa.
Donne, bambini, uomini, intere famiglie costrette a fuggire dalla guerra e dalla fame. Costretti a farlo indebitandosi, subendo violenze e torture nelle carceri libiche, rischiando di annegare, di morire di sete e di ustioni da carburante su barconi fatiscenti.
Costretti a questo calvario dai governi dell’Europa che ha prima saccheggiato le risorse dell’Africa e armato i conflitti che la dilaniano e poi ha chiuso le porte ai profughi di quelle guerre, obbligandoli alla fuga per l’unica via accessibile, la più pericolosa: il Mediterraneo, dove muoiono il 75 per cento dei migranti che in tutto il mondo, a migliaia, perdono la vita durante la loro fuga. 
 
Il nostro Governo non è indifferente a questa carneficina ma complice: invia navi militari per impedire ai migranti di lasciare le coste dell’Africa; si accorda con i dittatori dei paesi che perseguitano i profughi per bloccare ai confini chi tenta la fuga; perseguita le Ong che – senza alcun fine di lucro – salvano i migranti in mare; impone loro condizioni che rendono impossibile o vano l’intervento, come il divieto di trasbordare i profughi su imbarcazioni più grandi o l’obbligo della presenza sulle navi di ufficiali militari armati, inaccettabile per le associazioni umanitarie che operano in terre di conflitto solo grazie alla loro neutralità.
 
Il governo italiano si accanisce poi contro chi approda. Lo respinge in Libia e lo riconsegna agli aguzzini che lo hanno torturato, perché i segni di stupri e torture sono vecchi e non vengono refertati, rendendo spesso vana la richiesta di asilo e protezione. Ai richiedenti asilo viene comunque richiesto di svolgere lavori socialmente utili: di lavorare gratis, per noi.
 
Alcuni sindaci minacciano di ritorsioni le famiglie che accolgono i migranti, vogliono che paghino più tasse.Altri si rifiutano di destinare all’accoglienza dei profghi strutture abbandonate. Altri intimano lo sgombero dei presidi dove volontari distribuiscono gratuitamente pasti e vestiti e dispensano cure mediche. Il servizio pubblico diffonde la falsa informazione che l’Italia sia sotto assedio, che sia in corso un’invasione di profughi, che l’accoglienza non sia sostenibile, quando il nostro paese non figura nella lista di quelli che ospitano più rifugiati e non è nemmeno tra le destinazioni più ambite in Europa: ogni cento richiedenti asilo, solo 7 fanno domanda in Italia. 
 
Noi preferiremmo che non fosse così. Ci adoperiamo ogni giorno perché non sia così. Siamo qui a sfidare il Governo che criminalizza chi salva vite umane, a disobbedire ai sindaci che intimano di non accogliere i profughi, a denunciare la loro complicità con questo deliberato sterminio.
 
«Preferirei di no», risposero i professori universitari che si rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo. Furono solo 12 su 1200. Stavolta sappiamo di essere di più, e desideriamo creare un luogo dove chi pensa che la fuga dalla guerra e dalla fame sia un diritto e l’accoglienza un dovere possa ritrovarsi, mobilitarsi, esprimere la propria solidarietà nei confronti di chi rischia la vita e di chi la salva. Non staremo in silenzio, non staremo a guardare.

per firmare appello: http://www.progressi.org/iopreferireidino

martedì 8 agosto 2017

IMMIGRAZIONE: ALCUNI SPUNTI DI RIFLESSIONE PER NON CADERE IN TRAPPOLA

Stefano Galieni - Responsabile Pace, Movimenti e Immigrazione Prc S.E.

Si va diffondendo, soprattutto nel mondo dei social, il tentativo di motivare, con un approccio “marxista” le ragioni che dovrebbero indurre la sinistra e in particolare le comuniste e i comunisti, a limitare, se non contrastare l’accoglienza dei migranti, a combattere le Ong che effettuano soccorso in mare, come “serve del capitale”, ad indurre a credere, giungendo nei casi peggiori a vere e proprie teorie complottistiche, che l’immigrazione “selvaggia” sia un progetto preciso del capitale per ridurre i diritti dei lavoratori autoctoni, in cui la sinistra “radical chic” sempre intenta a fare aperitivi nei salotti della borghesia, è caduta o magari è consapevole complice in nome di concetti liberali come quelli dei diritti umani, della libera circolazione delle persone. A detta di alcuni pensatori di tale stampo dovremmo pensare invece che a fare i “buonisti” che accolgono, a riprendere la lotta di classe per portare alla rivoluzione il proletariato nazionale. Alcuni almeno ammettono candidamente che se non cominciamo ad accettare la rabbia che ha il popolo verso i migranti perdiamo qualsiasi legame con la classe (ergo diventiamo dei Salvini con la bandiera rossa?) altri invece utilizzano consapevolmente la stessa disinformazione borghese per affermare, sempre con la suddetta bandiera rossa in pugno, le stesse cose che dicono i giornali della borghesia come il Corriere della Sera o La Repubblica. Vero è che la rivoluzione ha percorsi tortuosi ma questo pare onestamente un labirinto. Mi provo ad offrire spunti di riflessione a partire da un assunto. Ormai stanno convincendo gran parte del paese che è in atto una guerra fra poveri (peccato che i “poveri migranti” non si possano difendere dai “poveri autoctoni” e quindi quantomeno manchi uno dei contendenti), in realtà a mio modesto avviso quella che è in atto è una “guerra contro i poveri”. E c’è da dire prima di partire che se nella trappola ci si è caduti in molti lo si deve anche ad un antirazzismo etico, di benpensanti, che non si confronta con la realtà e le sue contraddizioni e che con il proprio giudizio morale non fa che rafforzare un “razzismo popolare” certamente presente. Provo ad utilizzare alcune parole chiave su cui si fondano simili discorsi, per destrutturarli alla radice. Mi si scusi fin da ora per la superficialità inevitabile in uno spazio esiguo.

Esercito industriale di riserva
Si tratta di un vero e proprio tormentone: la domanda è esiste e serve un esercito industriale di riserva? Marx usava correttamente questo termine quando la rivoluzione industriale era in piena ascesa e non esistevano ancora contratti nazionali collettivi, sindacalismo diffuso. Tempi insomma in cui a fronte di una ampia richiesta di competenze lavorative di bassa qualifica, il padrone poteva scegliere il lavoratore che costava di meno e che non creava problemi. Oggi l’Europa e in particolare l’Italia sono in una situazione radicalmente diversa. Il paese ha ridotto in pochi anni del 25% le proprie produzioni in base ad una logica di concorrenza globale, molti impianti produttivi, anche in attivo vengono delocalizzati. Non siamo concorrenti ci dicono per la troppa rigidità del mercato del lavoro. Ce lo dicono da 30 anni, abbiamo i salari fra i più bassi d’Europa, decine di forme contrattuali diverse, sempre a vantaggio di chi trae profitto e dovremmo diventare ancora più concorrenziali avendo meno diritti? Ma soprattutto in tutto questo cosa c’entrano i migranti che sbarcano? Sono persone che per almeno due anni non avranno neanche la possibilità di essere inseriti nel ciclo produttivo, in attesa dell’esito delle domande d’asilo, che dovranno imparare lingua e lavoro. Questo a fronte del fatto che, in assenza di qualsiasi progetto di ripresa reale, dall’Italia dall’inizio della Crisi (2008) fino al 2016 hanno lasciato ufficialmente il paese 509 mila italiani, molti altri sono all’estero anche se mantengono la residenza in Italia. Lo hanno fatto perché i migranti rubavano loro il lavoro o perché di lavoro almeno pagato decentemente ce ne è poco? Un ritorno al passato, a quando l’emigrazione italiana era veramente una invasione e in Germania come in Belgio i sindacati reagirono pretendendo parità di salario a parità di lavoro. Quello che oggi in Germania (dove non vige il socialismo) si pretende per Turchi e Siriani. E comunque 509 mila, è un numero inferiore a quello dei migranti giunti nello stesso periodo in Italia e che vi sono rimasti, E mentre anche molti cittadini migranti presenti da tanti anni o scelgono un altro paese o tornano al proprio, in tanti si cade nella trappola per cui sono i nuovi arrivati a toglierci lavoro, casa, servizi. E se invece tornassimo a pretenderli per tutti? Altro che prima gli italiani. E a pretendere l’abrogazione del Regolamento Dublino che obbliga chi arriva a restare nel primo paese di arrivo, minacciando, in caso di risposta negativa, di fornire chi arriva di titoli di viaggio e di permessi umanitari per poter circolare in Europa? Sarebbe una disobbedienza concreta ai trattati, meno ipocrita e criminale della scelta di pagare altri, Libia o Turchia, per fermare le persone, per fare il lavoro sporco di aguzzini legalizzati.

Perché abbandonano il proprio paese?
Anche questa fa parte del repertorio: “se sono sotto dittatura si debbono ribellare in patria se sono migranti economici debbono migliorare e condizioni della loro classe nel loro paese, se sono in guerra debbono combattere”. Visto e sentito sintetizzando, in ambienti di “sinistra” se non “comunisti all’ennesima potenza”. Eh la storia che non insegna verrebbe da dire. Pensiamo a noi. Gli antifascisti furono costretti in gran parte alla fuga per riorganizzarsi, chi non ce la faceva per ragioni economiche se ne andò prima in ogni paese del mondo, poi dal sud verso nord, dove c’era bisogno di manodopera non di riserva. E come la diaspora durante il fascismo, l’emigrazione al nord furono motori trainanti, prima della resistenza e poi delle conquiste sociali degli anni Sessanta e Settanta. Certo ci furono problemi ma vennero affrontati in un’ottica di classe e non di “nazione”. Da ultimo dei 35 conflitti ufficialmente in atto nel mondo e delle centinaia di situazioni di tensione beneficia l’industria bellica che in Italia è estremamente fiorente e fa salire il Pil. Si è disponibili a combattere per un taglio drastico delle spese militari, per una riconversione delle industrie alla Finmeccanica e per l’interruzione delle relazioni diplomatiche ed economiche con paesi come l’Arabia Saudita, la Turchia, la Nigeria, la Libia che sono fra i nostri migliori clienti? Se non si è disposti a questo e la si considera questione di secondo ordine se ne accettino le conseguenze, anzi finora sin troppo blande. Da ultimo – i numeri sono importanti – dei 62 milioni di uomini e donne in fuga da varie parti del pianeta, gran parte cerca di restare nei pressi del proprio paese, in quelli confinanti, nella speranza di un ritorno. In Europa, nella ricchissima Europa, ne arriva si e no il 6%.

La globalizzazione liberista fa circolare liberamente merci, capitali e persone
Fra le balle in circolazione questa è una delle peggiori. Mentre capitali e merci circolano, da tanti anni ormai, indisturbati, per le persone la vicenda va esattamente al contrario. I paesi a capitalismo avanzato oggi sono pieni di muri e di ostacoli alla circolazione delle persone: il muro in Messico è una costante della storia americana, sia che governino i democratici che i repubblicani, l’Europa odierna è un sistema micidiale di gabbie verso l’esterno e mura interne per impedire la circolazione all’interno della stessa UE. Muri reali e muri fatti di repressione poliziesca. Basti pensare che la Francia ha rimandato in Italia lo scorso anno quasi 29 mila persone e che l’Italia continua imperterrita a fare rimpatri verso i paesi con cui ha stretto accordi, paesi in cui il tasso di democrazia è quantomeno opinabile. Entrare in Europa legalmente oggi è impossibile, come è impossibile in Australia. L’Italia, come la Grecia, è un paese esposto al sud, inevitabilmente è il paese in cui passare ma non quello in cui fermarsi. Peccato che chi governa l’Europa e non mi sembra che si tratti di filantropi caritatevoli, buonisti radical chic, o rivoluzionari duri e puri, neghi loro la libera circolazione mediante il regolamento Dublino e la stretta dei controlli nell’Area Schengen. Il tutto per numeri risibili: lo 0,2 % della popolazione italiana o lo 0,02 % di quella europea, arrotondando. Io chiamerei questo proibizionismo, altro che libera circolazione. Un proibizionismo che ha prodotto in meno di 20 anni oltre 40 mila morti in mare e chissà quanti nei deserti. Una guerra silenziosa il cui bilancio dovrebbe convincere anche i più sicuri dell’oscuro complotto capitalista. Se non bastasse, certamente per depistarci, i fondi spesi per “difendere i confini” e per le agenzie di contrasto all’immigrazione come FRONTEX, non sono calcolati per definire il deficit di qualsiasi stato membro. Ovvero più reprimete e meno pagate.

Per colpa dei migranti ci sono meno servizi agli italiani
Invece di dire “per colpa delle politiche economiche di austerity si taglia tutto” è meglio prendersela con chi ottiene briciole di accoglienza. Evidentemente i marxisti che fanno queste affermazioni sono convinti di trovarsi davanti ad una crisi di scarsità di risorse. Peccato sia esattamente il contrario. La crisi è di sovrapproduzione ma con bassi salari e alta disoccupazione nonché prospettive incerte di futuro, lo Stato avrebbe due modi per risolvere i problemi. Il primo prevede una vera progressività fiscale, una patrimoniale per le grandi ricchezze, una tassazione della rendita finanziaria e immobiliare degna di questo nome e una riduzione dell’orario e del tempo di lavoro e adeguamento dei salari ai costi della vita. Dovremmo pretendere questo. Invece i governi di centro destra e di centro sinistra, da decenni risolvono smantellando settori interi del welfare. Questo in un paese che invecchia produrrà sempre più danni, già oggi 12 milioni di persone rinunciano spesso a curarsi, centinaia di migliaia sono in emergenza abitativa, le condizioni generali di vita peggiorano. Magari si controllerà il debito pubblico e tante banche verranno salvate ma è colpa dell’arrivo degli immigrati o della nostra complessiva scarsa capacità conflittuale? “I soldi ci sono” non è uno slogan ma una realtà inoppugnabile. Che si dica questo invece di accettare che il disagio popolare ricada su chi sta peggio. E di servizi ne avremo sempre più bisogno dato il calo demografico della popolazione italiana che diviene sempre più anziana. Una situazione peggiore c’è solo in Germania e non a caso i tedeschi, non certo in nome del socialismo, ha negli anni passati aperto le porte ad oltre un milione di richiedenti asilo, soprattutto siriani, sospendendo il regolamento Dublino. L’isolamento autarchico in cui qualcuno ci vorrebbe far tornare in nome della sovranità nazionale, avrebbe come primo effetto quello di accentuare la fine tanto delle capacità produttive che di costruzione di conflitto sociale, nel paese. Sempre sui social, mi è capitato di provare stupore di trovare chi, citando Marx, afferma che il nemico di classe non è solo il padrone ma anche il sottoproletariato disposto a svendersi. Ovviamente si guarda al “sottoproletariato migrante”, che per antico retaggio colonialista, non può mai avere propria coscienza politica. Peccato che molti fra i pochi conflitti nel mondo del lavoro che si sono innescati in questi anni (logistica, agricoltura per esempio) abbiano avuto migranti come protagonisti mentre una condizione sociale che potremmo definire simile al sottoproletariato di marxiana memoria è oggi in gran parte autoctono. Sono altri nemici di classe? O forse Marx  avrebbe poco gradito tale rigidità di analisi?

Accoglienza e Ong, un unico grande business
Questa affermazione, che per altro porta a confondere due problematiche diverse, parte però da due assunti reali. L’accoglienza, gestita in Italia sempre come “emergenza” fin dai primi anni 90 è sempre stata un lucroso affare. Accanto a splendidi e piccoli esempi di cooperative reali si sono imposti sistemi paramafiosi (anche se per la Procura di Roma è errato parlare di mafia) in cui però un ruolo centrale è determinato dal sistema legislativo e dagli organismi dello Stato che sono preposti a gestire tale situazione. I fondi per l’accoglienza ci sono, arrivano in parte sostenuta, dall’Europa, ma non esiste un ruolo reale di controllo. Ministero dell’Interno e Prefetture definiscono bandi in cui chi fa l’offerta più vantaggiosa e ha le strutture adeguate, si prende gli ospiti, dall’albergo al mega centro per migliaia di persone. Entrate enormi per i grandi enti gestori che non subiscono mai reali ispezioni, salari da fame per i tanti operatori che ci lavorano. In alcuni paesini questa è l’unica opportunità di lavoro offerta. Se l’accoglienza fosse gestita totalmente dal pubblico e i richiedenti asilo potessero essere distribuiti in tutti gli 8000 Comuni italiani e non, come avviene adesso in soli 2300, non si avrebbe neanche la percezione di invasione. Ma sarebbero centri più piccoli che garantirebbero profitti più bassi. Invece sulle Ong che guadagnano salvando persone parte delle credenze che circolano, anche nei nostri ambienti, vengono da lontano. Un tempo in Italia esistevano tante Ong (Organizzazioni NON governative) ma che, nonostante il loro nome, vivevano grazie a elargizioni del governo o dei singoli ministeri. Oggi non è più così infatti le finte Ong italiane hanno chiuso da tempo o hanno trovato donatori privati. Quelle che intervengono a salvare i profughi lo fanno grazie ai tanti donatori, i loro bilanci sono pubblici, pur non essendo italiane, si trovano nei loro siti. Anzi più è alto il numero dei donatori più se ne vantano. Gli equipaggi vengono pagati gli altri sono volontari. Qualcuno obbietta con l’affermazione “si ma sono figli della borghesia che così aiutano il disegno del capitale”. Molti provengono anche da famiglie abbienti perché solo chi ha una serenità economica può dedicare qualche mese l’anno a fare il volontario in mare. Una colpa? Equipariamo il servizio nelle Ong a servizio civile e facciamo si che anche i giovani meno privilegiati possano fare simili esperienze. Magari poi diventano i vettori di una informazione reale che i nostri mezzi di comunicazione ci negano.

Cittadinanza e ius soli
Anche in questo caso, se si deve accettare l’onestà intellettuale di certi discorsi pubblici (non sempre è possibile), vengono i brividi. “Si tratta di leggi inutili e di diritti superflui”. Peccato che lo si dica godendone appieno. Eppure è logico pensare che se soltanto la restrittiva legge sullo ius soli, (frutto di un compromesso al ribasso) venisse approvata e se per i cittadini lungo residenti fosse assicurato il diritto di voto, almeno alle elezioni amministrative, molte cose potrebbero cambiare. Ci voterebbero? Non è detto, almeno che non si sia chiari fino in fondo, ma avrebbero finalmente un potere contrattuale anche politico, romperebbero la barriera per cui io decido chi amministra anche le altrui vite, costringerebbe i governi a fare i conti e a negoziare anche per garantire parità salariale ed evitare che in futuro sorga la concorrenza fra lavoratori tanto temuta. Sarebbe un piccolo passo di civiltà, altro che questione non prioritaria. O si ha paura di doversi confrontare con chi, almeno sulla carta, avrebbe uno strumento in più per affermarsi? Chiaro che si tratta di diritti più formali che sostanziali, ma perché tanto bisogno di farli restare privilegi? E comunque che questi discorsi si facciano ai tanti ragazzi e ragazze che vogliono costruirsi qui un futuro e che spesso lottano con noi.


martedì 25 luglio 2017

ROMA SENZA ACQUA, FALLIMENTO DELLA PRIVATIZZAZIONE

Siccità, Acerbo (Prc): «Roma senza acqua, fallimento della privatizzazione»

«L’emergenza acqua a Roma dimostra che avevamo ragione nella lotta per l’acqua bene comune – dichiara Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione Comunista – Sinistra Europea -. Il razionamento dell’acqua a Roma è l’emblema del fallimento delle politiche di privatizzazione dei servizi pubblici perseguite da centrodestra e centrosinistra.
La trasformazione a fine anni ’90 delle aziende municipali in società quotate in borsa ha tradito le promesse dei neoliberisti e a mostrarlo sono i dati sulle perdite di acqua a Roma.
Oggi Acea è una multiutility che distribuisce dividendo agli azionisti, si occupa di business di ogni genere (dall’energia al compostaggio agli inceneritori) e investe in tutta Italia e all’estero (soprattutto America Latina). Però non si occupa delle perdite della capitale.
Le politiche condivise dai due poli che hanno governato l’Italia negli ultimi venticinque anni hanno distrutto lo stesso concetto di servizio pubblico e hanno consentito a capitali privati di accumulare profitti mediante l’espropriazione di beni comuni.
Pensare che furono Giolitti e Luigi Einaudi a municipalizzare nel 1907 i servizi idrici prendendo esempio dal Regno Unito! Il grande economista liberale spiegava allora che non si possono affidare monopoli a privati.
E’ ora che si dia attuazione al referendum del 2011 e si proceda alla ripubblicizzazione della gestione dell’acqua e più in generale si aboliscano le SPA per la gestione di servizi pubblici. Ciò che è pubblico deve essere gestito da soggetti di diritto pubblico in maniera trasparente e partecipata con l’obiettivo di garantire servizi ai cittadini non utili agli azionisti».

giovedì 29 giugno 2017

giovedì 25 maggio 2017

La rivoluzione di Antonio Gramsci. Il laboratorio della Rivoluzione in Occidente

2017: cento anni dalla Rivoluzione d’Ottobre e ottant’anni dalla morte di Antonio Gramsci. La coincidenza del doppio anniversario non poteva passare inosservata. Anche perché Gramsci è stato, sia pure da lontano, un interprete attentissimo del ’17 russo, che ha segnato la sua vicenda politica, teorica e umana come pochi altri avvenimenti.
Per la sua formazione culturale, il marxismo del giovane Gramsci era soggettivistico, influenzato dalle correnti filosofiche del tempo (neoidealismo, bergsonismo, pragmatismo) che convergevano nella rivaluta-zione del “soggetto” contro l’“oggettivismo” (epistemologico, storico, politico) positivista, che aveva contaminato il socialismo del tempo. Un marxismo sui generis, imperniato sul primato della volontà.
Quando in Russia scoppiò la “prima rivoluzione” di febbraio, Gramsci la lesse come la riscossa dei socialisti che non avevano tradito lo spirito internazionale, e vide nei fatti di Pietrogrado una «rivoluzione proletaria». Egli era convinto che l’ala più rivoluzionaria del nuovo potere instauratosi avrebbero avuto l’appoggio della grandissima parte della popolazione, se solo essa avesse potuto esprimersi liberamente e con il suffragio universale. Era una visione piuttosto ingenua del processo rivoluzionario e della democrazia: Gramsci prescindeva ancora – al contrario di quanto farà negli scritti maturi del carcere, ma anche in parte nel periodo consiliarista del 1919-’20 – dai prerequisiti della democrazia, dagli elementi tendenzialmente egualitari (in termini di cultura, informazione, libertà dal bisogno) che un corpo elettorale dovrebbe avere per esprimersi senza «fini particolaristici».
Il 25 ottobre (il 7 novembre per il calendario occidentale) vi fu in Russia la presa del Palazzo d’Inverno, l’assunzione (quasi senza colpo ferire) del potere da parte dei Soviet egemonizzati dai bolscevichi. Celeberrimo è il commento gramsciano: si trattava per lui di una «rivoluzione contro Il Capitale», contro chi aveva dato del libro di Marx una lettura economicistica e deterministica, secondo la quale non sarebbe stata possibile alcuna rivoluzione socialista nella Russia arretrata prima di un adeguato sviluppo dello stadio capitalistico, dell’industria e dunque della classe operaia russe. Il marxismo dei bolscevichi era costruito da Gramsci a immagine e somiglianza delle sue idee di allora. Era la volontà a trionfare, nella visione del giovane rivoluzionario: gli essere umani associati possono comprendere «i fatti economici e li giudicano, e li adeguano alla loro volontà, finché questa diventa la motrice dell’economia, la plasmatrice della realtà oggettiva, che vive, e si muove, e acquista carattere di materia tellurica in ebullizione, che può essere incanalata dove alla volontà piace, come alla volontà piace».
Al di là dell’attacco a effetto (una rivoluzione contro… Marx!), l’articolo coglieva alcune motivazioni profonde dell’Ottobre: la guerra aveva reso possibile un evento inaudito e per i più inaspettato, eccezionale e imprevedibile per «i canoni di critica storica del marxismo», in genere validi (aggiungeva Gramsci). La Russia aveva avuto la sua rivoluzione perché Lenin aveva saputo leggere la “congiuntura”, diremmo oggi, aveva saputo fare «l’analisi concreta della situazione concreta».
Gramsci passa negli anni successivi per esperienze difficili e cruciali. In primo luogo il “biennio rosso” 1919-1920, quando egli divenne uno dei più importanti e originali rappresentanti nel pensiero consiliarista europeo. I Consigli di Gramsci molto più dei Soviet russi affondavano le loro radici nella fabbrica. Si trattava, per il Gramsci di questo periodo, di ricomporre la scissione tra società civile e società politica. La sconfitta del movimento operaio torinese fece aprire gli occhi sulla complessità della situazione italiana, sul fatto che non tutta l’Italia era Torino, moderna società industriale di massa; e sui limiti del Partito socialista, rivoluzionario a parole ma immobilista e confusionario nei fatti. Da qui la spinta a formare subito un partito comunista anche in Italia, accettando la leadership di Amadeo Bordiga, da cui Gramsci era per tanti versi distante.
Dalla sconfitta del movimento operaio e socialista nel “biennio rosso” nacque anche la drammatica fase della reazione fascista. La qual cosa predispose Gramsci ad accettare l’insegnamento dell’ultimo Lenin sulle difficoltà di una immediata rivoluzione in Occidente. Qui le «superstrutture politiche», create dallo sviluppo del capitalismo e dalla società di massa, rendevano più lenta e complessa ogni possibile strategia rivoluzionaria: già nel 1924 Gramsci aveva maturato in nuce alcuni dei temi («guerra di posizione», egemonia) che sarebbero stati centrali nei Quaderni.
Passando per molte vicende storiche drammatiche, fino agli anni del carcere, Gramsci giunge a un ripensamento complessivo del suo bagaglio teorico giovanile. Alcuni fili del quale sono riscontrabili anche nella trama dei Quaderni, ma inseriti in un quadro d’insieme per molti aspetti diverso. Alla volontà rivoluzionaria, nel Gramsci maturo si affianca la considerazione dei rapporti di forza, la necessità della conoscenza della situazione il più possibile oggettiva, l’analisi minuziosa, storica e sociale, del terreno su cui si svolge la lotta. Questa analisi, applicata alla realtà italiana e all’Occidente capitalistico, portava alla conclusione della non ripetibilità di una rivoluzione di tipo sovietico. Gramsci in carcere, in altre parole, giunge a mettere a fuoco la differenza morfologica tra Oriente e Occidente. E arriva ad affermare che la Rivoluzione russa è l’ultima rivoluzione di stampo ottocentesco, l’ultima rivoluzione-insurrezione, almeno in Europa o nel mondo avanzato.
In Occidente, la moderna struttura della società di massa, la compenetrazione nuova tra Stato e società civile, il peso e l’importanza degli apparati della formazione del consenso sono tutti fattori che lo conducono a rivoluzionare il concetto di rivoluzione, non solo rispetto alla visione idealistica che dello stesso aveva avuto nel suo periodo giovanile, ma anche rispetto alla concezione classica, e a volte stereotipata, della tradizione marxista e leninista. Non perché Gramsci fuoriesca dal marxismo o dalla tradizione rivoluzionaria, con un approdo revisionista e riformista – come a volte è stato sostenuto. La volontà di cambiamento non perde il suo ancoraggio di classe, il suo cuore nel mondo dei rapporti sociali, ma vede ora tutta la complessità dell’azione politica moderna e ritiene decisivo lanciare la sfida della conquista del consenso.
È una concezione che, mettendo in rilievo l’importanza di creare un nuovo senso comune diffuso, poneva le premesse per una lotta politica democratica volta alla conquista dell’egemonia. La riflessione gramsciana affondava le proprie radici nella Rivoluzione di Ottobre, ma sapeva cogliere le novità della società di massa, e anche alcuni limiti storici della prima rivoluzione socialista della storia, elevando il processo rivoluzionario all’altezza delle aspirazioni alla libertà oggi largamente diffuse.

articolo dall’inserto del “manifesto” dedicato a Gramsci, 18 maggio 2017

martedì 7 marzo 2017

HASTA LA VICTORIA, COMPAGNO AGOSTINO

Il Circolo per Partito della Rifondazione Comunista di Saronno ha perso uno dei suoi compagni più rappresentativi.
Agostino Venieri è mancato dopo aver combattuto una lunga malattia con una forza di volontà con pochi uguali.

Agostino era una persona molto conosciuta in città: c’è chi lo ricorderà per la sua attività professionale, c’è chi lo ricorderà per il suo impegno sociale e l’attività a favore del Centro Sportivo Matteotti o per il suo insostituibile contributo nella Cooperativa Casa del Partigiano, per la quale ha lavorato fino a che le forze glielo hanno consentito.

Noi lo ricorderemo in particolare per la sua attività politica: già consigliere comunale del PCI, dopo lo scioglimento del partito è fra i primi a fondare il Circolo del PRC a Saronno. Caratteristica comune a tutta la sua attività è stata la sua generosità ed abnegazione a cui molte persone non possono che essere riconoscenti.

Hasta Siempre Ago


Il Circolo di Saronno del Partito della Rifondazione Comunista  

martedì 3 gennaio 2017

BUON ANNO RIVOLUZIONARIO


“La rivoluzione è il senso del momento storico
è cambiare tutto ciò che va cambiato
è uguaglianza e libertà piena
è essere trattato e trattare gli altri come esseri umani
è emanciparci grazie a noi stessi
e con i nostri propri sforzi
è sfidare poderose forze dominanti
dentro e fuori dall’ambito sociale e nazionale
è difendere i valori in cui si crede
al prezzo di qualsiasi sacrificio
è modestia disinteresse altruismo
solidarietà e eroismo
è non mentire mai
né violare principi etici
è convinzione profonda
che non esiste forza al mondo
capace di schiacciare la forza della verità e delle idee
rivoluzione è unità
è indipendenza
è lottare per i nostri sogni di giustizia
per Cuba e per il mondo
è la base del nostro patriottismo
del nostro socialismo
e del nostro internazionalismo”

Fidel Castro