giovedì 25 maggio 2017

La rivoluzione di Antonio Gramsci. Il laboratorio della Rivoluzione in Occidente

2017: cento anni dalla Rivoluzione d’Ottobre e ottant’anni dalla morte di Antonio Gramsci. La coincidenza del doppio anniversario non poteva passare inosservata. Anche perché Gramsci è stato, sia pure da lontano, un interprete attentissimo del ’17 russo, che ha segnato la sua vicenda politica, teorica e umana come pochi altri avvenimenti.
Per la sua formazione culturale, il marxismo del giovane Gramsci era soggettivistico, influenzato dalle correnti filosofiche del tempo (neoidealismo, bergsonismo, pragmatismo) che convergevano nella rivaluta-zione del “soggetto” contro l’“oggettivismo” (epistemologico, storico, politico) positivista, che aveva contaminato il socialismo del tempo. Un marxismo sui generis, imperniato sul primato della volontà.
Quando in Russia scoppiò la “prima rivoluzione” di febbraio, Gramsci la lesse come la riscossa dei socialisti che non avevano tradito lo spirito internazionale, e vide nei fatti di Pietrogrado una «rivoluzione proletaria». Egli era convinto che l’ala più rivoluzionaria del nuovo potere instauratosi avrebbero avuto l’appoggio della grandissima parte della popolazione, se solo essa avesse potuto esprimersi liberamente e con il suffragio universale. Era una visione piuttosto ingenua del processo rivoluzionario e della democrazia: Gramsci prescindeva ancora – al contrario di quanto farà negli scritti maturi del carcere, ma anche in parte nel periodo consiliarista del 1919-’20 – dai prerequisiti della democrazia, dagli elementi tendenzialmente egualitari (in termini di cultura, informazione, libertà dal bisogno) che un corpo elettorale dovrebbe avere per esprimersi senza «fini particolaristici».
Il 25 ottobre (il 7 novembre per il calendario occidentale) vi fu in Russia la presa del Palazzo d’Inverno, l’assunzione (quasi senza colpo ferire) del potere da parte dei Soviet egemonizzati dai bolscevichi. Celeberrimo è il commento gramsciano: si trattava per lui di una «rivoluzione contro Il Capitale», contro chi aveva dato del libro di Marx una lettura economicistica e deterministica, secondo la quale non sarebbe stata possibile alcuna rivoluzione socialista nella Russia arretrata prima di un adeguato sviluppo dello stadio capitalistico, dell’industria e dunque della classe operaia russe. Il marxismo dei bolscevichi era costruito da Gramsci a immagine e somiglianza delle sue idee di allora. Era la volontà a trionfare, nella visione del giovane rivoluzionario: gli essere umani associati possono comprendere «i fatti economici e li giudicano, e li adeguano alla loro volontà, finché questa diventa la motrice dell’economia, la plasmatrice della realtà oggettiva, che vive, e si muove, e acquista carattere di materia tellurica in ebullizione, che può essere incanalata dove alla volontà piace, come alla volontà piace».
Al di là dell’attacco a effetto (una rivoluzione contro… Marx!), l’articolo coglieva alcune motivazioni profonde dell’Ottobre: la guerra aveva reso possibile un evento inaudito e per i più inaspettato, eccezionale e imprevedibile per «i canoni di critica storica del marxismo», in genere validi (aggiungeva Gramsci). La Russia aveva avuto la sua rivoluzione perché Lenin aveva saputo leggere la “congiuntura”, diremmo oggi, aveva saputo fare «l’analisi concreta della situazione concreta».
Gramsci passa negli anni successivi per esperienze difficili e cruciali. In primo luogo il “biennio rosso” 1919-1920, quando egli divenne uno dei più importanti e originali rappresentanti nel pensiero consiliarista europeo. I Consigli di Gramsci molto più dei Soviet russi affondavano le loro radici nella fabbrica. Si trattava, per il Gramsci di questo periodo, di ricomporre la scissione tra società civile e società politica. La sconfitta del movimento operaio torinese fece aprire gli occhi sulla complessità della situazione italiana, sul fatto che non tutta l’Italia era Torino, moderna società industriale di massa; e sui limiti del Partito socialista, rivoluzionario a parole ma immobilista e confusionario nei fatti. Da qui la spinta a formare subito un partito comunista anche in Italia, accettando la leadership di Amadeo Bordiga, da cui Gramsci era per tanti versi distante.
Dalla sconfitta del movimento operaio e socialista nel “biennio rosso” nacque anche la drammatica fase della reazione fascista. La qual cosa predispose Gramsci ad accettare l’insegnamento dell’ultimo Lenin sulle difficoltà di una immediata rivoluzione in Occidente. Qui le «superstrutture politiche», create dallo sviluppo del capitalismo e dalla società di massa, rendevano più lenta e complessa ogni possibile strategia rivoluzionaria: già nel 1924 Gramsci aveva maturato in nuce alcuni dei temi («guerra di posizione», egemonia) che sarebbero stati centrali nei Quaderni.
Passando per molte vicende storiche drammatiche, fino agli anni del carcere, Gramsci giunge a un ripensamento complessivo del suo bagaglio teorico giovanile. Alcuni fili del quale sono riscontrabili anche nella trama dei Quaderni, ma inseriti in un quadro d’insieme per molti aspetti diverso. Alla volontà rivoluzionaria, nel Gramsci maturo si affianca la considerazione dei rapporti di forza, la necessità della conoscenza della situazione il più possibile oggettiva, l’analisi minuziosa, storica e sociale, del terreno su cui si svolge la lotta. Questa analisi, applicata alla realtà italiana e all’Occidente capitalistico, portava alla conclusione della non ripetibilità di una rivoluzione di tipo sovietico. Gramsci in carcere, in altre parole, giunge a mettere a fuoco la differenza morfologica tra Oriente e Occidente. E arriva ad affermare che la Rivoluzione russa è l’ultima rivoluzione di stampo ottocentesco, l’ultima rivoluzione-insurrezione, almeno in Europa o nel mondo avanzato.
In Occidente, la moderna struttura della società di massa, la compenetrazione nuova tra Stato e società civile, il peso e l’importanza degli apparati della formazione del consenso sono tutti fattori che lo conducono a rivoluzionare il concetto di rivoluzione, non solo rispetto alla visione idealistica che dello stesso aveva avuto nel suo periodo giovanile, ma anche rispetto alla concezione classica, e a volte stereotipata, della tradizione marxista e leninista. Non perché Gramsci fuoriesca dal marxismo o dalla tradizione rivoluzionaria, con un approdo revisionista e riformista – come a volte è stato sostenuto. La volontà di cambiamento non perde il suo ancoraggio di classe, il suo cuore nel mondo dei rapporti sociali, ma vede ora tutta la complessità dell’azione politica moderna e ritiene decisivo lanciare la sfida della conquista del consenso.
È una concezione che, mettendo in rilievo l’importanza di creare un nuovo senso comune diffuso, poneva le premesse per una lotta politica democratica volta alla conquista dell’egemonia. La riflessione gramsciana affondava le proprie radici nella Rivoluzione di Ottobre, ma sapeva cogliere le novità della società di massa, e anche alcuni limiti storici della prima rivoluzione socialista della storia, elevando il processo rivoluzionario all’altezza delle aspirazioni alla libertà oggi largamente diffuse.

articolo dall’inserto del “manifesto” dedicato a Gramsci, 18 maggio 2017