2017:
cento anni dalla Rivoluzione d’Ottobre e ottant’anni dalla morte di
Antonio Gramsci. La coincidenza del doppio anniversario non poteva
passare inosservata. Anche perché Gramsci è stato, sia pure da lontano,
un interprete attentissimo del ’17 russo, che ha segnato la sua vicenda
politica, teorica e umana come pochi altri avvenimenti.
Per la
sua formazione culturale, il marxismo del giovane Gramsci era
soggettivistico, influenzato dalle correnti filosofiche del tempo
(neoidealismo, bergsonismo, pragmatismo) che convergevano nella
rivaluta-zione del “soggetto” contro l’“oggettivismo” (epistemologico,
storico, politico) positivista, che aveva contaminato il socialismo del
tempo. Un marxismo sui generis, imperniato sul primato della volontà.
Quando
in Russia scoppiò la “prima rivoluzione” di febbraio, Gramsci la lesse
come la riscossa dei socialisti che non avevano tradito lo spirito
internazionale, e vide nei fatti di Pietrogrado una «rivoluzione
proletaria». Egli era convinto che l’ala più rivoluzionaria del nuovo
potere instauratosi avrebbero avuto l’appoggio della grandissima parte
della popolazione, se solo essa avesse potuto esprimersi liberamente e
con il suffragio universale. Era una visione piuttosto ingenua del
processo rivoluzionario e della democrazia: Gramsci prescindeva ancora –
al contrario di quanto farà negli scritti maturi del carcere, ma anche
in parte nel periodo consiliarista del 1919-’20 – dai prerequisiti della
democrazia, dagli elementi tendenzialmente egualitari (in termini di
cultura, informazione, libertà dal bisogno) che un corpo elettorale
dovrebbe avere per esprimersi senza «fini particolaristici».
Il 25
ottobre (il 7 novembre per il calendario occidentale) vi fu in Russia la
presa del Palazzo d’Inverno, l’assunzione (quasi senza colpo ferire)
del potere da parte dei Soviet egemonizzati dai bolscevichi. Celeberrimo
è il commento gramsciano: si trattava per lui di una «rivoluzione
contro Il Capitale», contro chi aveva dato del libro di Marx una lettura
economicistica e deterministica, secondo la quale non sarebbe stata
possibile alcuna rivoluzione socialista nella Russia arretrata prima di
un adeguato sviluppo dello stadio capitalistico, dell’industria e dunque
della classe operaia russe. Il marxismo dei bolscevichi era costruito
da Gramsci a immagine e somiglianza delle sue idee di allora. Era la
volontà a trionfare, nella visione del giovane rivoluzionario: gli
essere umani associati possono comprendere «i fatti economici e li
giudicano, e li adeguano alla loro volontà, finché questa diventa la
motrice dell’economia, la plasmatrice della realtà oggettiva, che vive, e
si muove, e acquista carattere di materia tellurica in ebullizione, che
può essere incanalata dove alla volontà piace, come alla volontà
piace».
Al di
là dell’attacco a effetto (una rivoluzione contro… Marx!), l’articolo
coglieva alcune motivazioni profonde dell’Ottobre: la guerra aveva reso
possibile un evento inaudito e per i più inaspettato, eccezionale e
imprevedibile per «i canoni di critica storica del marxismo», in genere
validi (aggiungeva Gramsci). La Russia aveva avuto la sua rivoluzione
perché Lenin aveva saputo leggere la “congiuntura”, diremmo oggi, aveva
saputo fare «l’analisi concreta della situazione concreta».
Gramsci
passa negli anni successivi per esperienze difficili e cruciali. In
primo luogo il “biennio rosso” 1919-1920, quando egli divenne uno dei
più importanti e originali rappresentanti nel pensiero consiliarista
europeo. I Consigli di Gramsci molto più dei Soviet russi affondavano le
loro radici nella fabbrica. Si trattava, per il Gramsci di questo
periodo, di ricomporre la scissione tra società civile e società
politica. La sconfitta del movimento operaio torinese fece aprire gli
occhi sulla complessità della situazione italiana, sul fatto che non
tutta l’Italia era Torino, moderna società industriale di massa; e sui
limiti del Partito socialista, rivoluzionario a parole ma immobilista e
confusionario nei fatti. Da qui la spinta a formare subito un partito
comunista anche in Italia, accettando la leadership di Amadeo Bordiga,
da cui Gramsci era per tanti versi distante.
Dalla
sconfitta del movimento operaio e socialista nel “biennio rosso” nacque
anche la drammatica fase della reazione fascista. La qual cosa
predispose Gramsci ad accettare l’insegnamento dell’ultimo Lenin sulle
difficoltà di una immediata rivoluzione in Occidente. Qui le
«superstrutture politiche», create dallo sviluppo del capitalismo e
dalla società di massa, rendevano più lenta e complessa ogni possibile
strategia rivoluzionaria: già nel 1924 Gramsci aveva maturato in nuce
alcuni dei temi («guerra di posizione», egemonia) che sarebbero stati
centrali nei Quaderni.
Passando
per molte vicende storiche drammatiche, fino agli anni del carcere,
Gramsci giunge a un ripensamento complessivo del suo bagaglio teorico
giovanile. Alcuni fili del quale sono riscontrabili anche nella trama
dei Quaderni, ma inseriti in un quadro d’insieme per molti aspetti
diverso. Alla volontà rivoluzionaria, nel Gramsci maturo si affianca la
considerazione dei rapporti di forza, la necessità della conoscenza
della situazione il più possibile oggettiva, l’analisi minuziosa,
storica e sociale, del terreno su cui si svolge la lotta. Questa
analisi, applicata alla realtà italiana e all’Occidente capitalistico,
portava alla conclusione della non ripetibilità di una rivoluzione di
tipo sovietico. Gramsci in carcere, in altre parole, giunge a mettere a
fuoco la differenza morfologica tra Oriente e Occidente. E arriva ad
affermare che la Rivoluzione russa è l’ultima rivoluzione di stampo
ottocentesco, l’ultima rivoluzione-insurrezione, almeno in Europa o nel
mondo avanzato.
In
Occidente, la moderna struttura della società di massa, la
compenetrazione nuova tra Stato e società civile, il peso e l’importanza
degli apparati della formazione del consenso sono tutti fattori che lo
conducono a rivoluzionare il concetto di rivoluzione, non solo rispetto
alla visione idealistica che dello stesso aveva avuto nel suo periodo
giovanile, ma anche rispetto alla concezione classica, e a volte
stereotipata, della tradizione marxista e leninista. Non perché Gramsci
fuoriesca dal marxismo o dalla tradizione rivoluzionaria, con un approdo
revisionista e riformista – come a volte è stato sostenuto. La volontà
di cambiamento non perde il suo ancoraggio di classe, il suo cuore nel
mondo dei rapporti sociali, ma vede ora tutta la complessità dell’azione
politica moderna e ritiene decisivo lanciare la sfida della conquista
del consenso.
È una
concezione che, mettendo in rilievo l’importanza di creare un nuovo
senso comune diffuso, poneva le premesse per una lotta politica
democratica volta alla conquista dell’egemonia. La riflessione
gramsciana affondava le proprie radici nella Rivoluzione di Ottobre, ma
sapeva cogliere le novità della società di massa, e anche alcuni limiti
storici della prima rivoluzione socialista della storia, elevando il
processo rivoluzionario all’altezza delle aspirazioni alla libertà oggi
largamente diffuse.
articolo dall’inserto del “manifesto” dedicato a Gramsci, 18 maggio 2017